Things of Future Past (1914)

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view post Posted on 2/8/2013, 11:01
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Vecchio Gatto Stanco Di Vivere.

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2011-06-14__sp03



Things of Future Past
1914



Luglio faceva gialli i campi da cricket. Succhiava lo smeraldo dai fili d’erba inglesi, facendone piccole sciabole gialle in punta, che indicavano il cielo rosa del tardo pomeriggio. Il Lanciatore era un diavolo di ‘spin bowler’. Piccolo, agile. I suoi lanci avevano angolazioni improbabili, impensabili, imbattibili. La palla possedeva ad ogni lancio un cuore diverso: piombo, etere, acqua, sabbia. Non rimbalzava mai come i giocatori e il pubblico si aspettavano. Sullo sfondo, la Serpentina e le sue anatre non prestavano ai giocatori nessuna attenzione.
Lo spinner era uno spiritello in pullover bianco e pantaloni ampi che spiava il battitore da sotto la visiera del suo berretto nero. Il sole morente gli disegnava una mascherina da procione sugli occhi, che pure nell’ombra s’indovinavano chiari come acqua.
“Attento al tuo Wicket…” sorrise lo spinner. Un ragazzino, doveva essere per forza un ragazzino. Fece solo due passi, come una danza, il braccio a disegnare un arco degno di un’ etoile e la palla, viva e senziente, si staccò dalla sua mano coi mezzi guanti, ignorò le leggi della fisica e, posseduta da un djinn amante del cricket, rimbalzò con la decisione di una sentenza. Si permise di ignorare mazza e battitore e atterrare come un corpo alieno e celeste tra le mani del keeper.
Battitore eliminato.
“Non è regolare!” protestò il batsman.
“Oh sì, che lo è!” rise lo spinner, come se fosse fatto di campanelli. Poi qualcosa catturò la sua attenzione ai margine del campo: “Ohibò, la rivincita un’altra volta, signori miei! Devo andare!”
“Non abbiamo finito!” protestò un fielder della squadra avversaria
“Un’altra volta, pardonnez-moi!”
Si levarono proteste da entrambe le squadre: “Non può fare sempre quello che vuole!” si stizzivano gli Amici. “Nemmeno potrebbe giocare!” bofonchiavano i nemici. Il sole calava sul campo da cricket, il cielo rosa, e poi violetto e poi ecco Venere.
Lo spinner corse su per la collinetta che delimitava l’ovale, dove gli spettatori sedevano su coperte scozzesi sorseggiando soda americana e fumando. Alcuni lo seguirono con lo sguardo senza neppure staccare le labbra dal collo delle loro Coca Cola.
Raggiunse l’uomo anziano in giacca e boater di paglia, gli si arrestò di fronte con il saltello dell’ acrobata che ha terminato la sua evoluzione ed aspetta l’applauso. L’uomo col boater aveva capelli bianchi come nuvole, le rughe intorno agli occhi erano i pizzi che rendono fragile il tessuto di un velo da sposa.
“E’ questo che fai nel tuo tempo libero?” chiese l’uomo. La voce era giovane e dal timbro celeste. La domanda era morbida come una carezza fatta di parole.
Lo spinner si alzò sulle punte dei piedi, si sporse in avanti per baciarle l’uomo sulla guancia, ma la visiera nera del cricketeer e quella rigida del boater intralvciarono l’operazione. Il giocatore di cricket ridacchiando si levò il berretto scuro e liberò lunghi boccoli biondo oro, una criniera di un leone in blasone ricamato che profumava di mela.
“Grazie” Jericho distolse per un milionesimo di secondo lo sguardo dai capelli lungui e biondi, perché ancora adesso erano rovi per lui, le spine che stracciavano le vesti e graffiavano la pelle nella sua fuga da una regina cattiva. Ma era solo un istante, infinitesimale. Battere le ciglia cancellava tutto, non c’erano più sovrapposizioni, solo la bellezza della sua bambina.
“Nel tempo libero faccio quello che mi salta in testa: se mi sento casalinga ricamo e cuocio biscotti. Se mi prende la smania di andare e vedere, leggo un libro di esplorazioni. Se ho troppa voglia di vivere, faccio vedere agli studenti del college che gioco a cricket meglio di loro.”
Dall’ovale d’erba, due o tre ragazzi ancora guardavano dalla loro parte.
“Chi di loro è il tuo fidanzato?”Jericho si levò il cappello e si asciugò la fronte col fazzoletto. Persino a quell’ora la calura era opprimente.
“Nigel…” Gini salutò i giocatori “Adam. Forse anche Elwyn.”
Jericho non riuscì a non ridacchiare. E neppure ad arrabbiarsi: “Cosa volevi dirmi, dunque? Attraversare Londra nella vampa di Luglio non è tra i miei passatempi preferiti”.
“Aspettiamo la star, prima. Sediamoci sotto quell’albero e indignamoci per il suo costante ritardo”
Gini, lunghi capelli biondi su divisa da cricjket, prese Jericho sottobraccio e lo spinse verso una panchina in ombra. Passò di fianco alla cetsa dei beveraggi della squadra e prelevò due bottiglie di soda.
“Dove hai imparato a fare quei lanci ad effetto?” Jericho si sedette, entrambe le mani sulla canna da passeggio. Gini stappò una bottiglietta e gliela porse: “Magia:”
Jericho la guardò con un ghignetto: Gini giustificava ogni cosa con una sola parola: Magia. Prendeva molto sul serio le sue origini. Era scettica, secolare, atea e a volte persino cinica, eppure in lei c’erano il Circo, la Magia, le sedute spiritiche, la prestidigitazione. Nessun battitore può intercettare una palla lanciata da un illusionista.
Il Modello T decappottabile frenò sollevando ghiaia bianco-neve nel vialetto che costeggiava il parco. Un guardiano andò alla macchina, per protestare, che le macchine lì non ci potevano stare, era un parco pubblico, che diamine! Ma scambiate due parole col pilota, si prese il berretto in mano e la sua schiena assunse una curva deferente. Anzi, no. Adorante. Annuì un paio di volte e si allontanò.
Gini e Jericho osservarono la scena, senza scomporsi. La star.
La star scese dal veicolo argentato, sfoggiando un completo tre pezzi bianco e occhialini fumè. Nessuna canna da passeggio. Un bocciolo di rosa sul bavero.
Gini ripetè: “Magia” mentre il suo gemello scendeva la collinetta erbosa verso l’ovale, emanando quel suo personale fluido che ti faceva percepire al suo passaggio un pulviscolo dorato, come certi santoni indiani di Bombay. Fin da piccoli, la gente sbirciava dentro il giardinetto della loro casa di Epping, nella speranza di vedere Chris, come se si aspettassero qualcosa, un miracolo, una manifestazione di santità, una materializzazione d’oro. Guardavano per vedere quello che era il volto dell’amore e delle promesse, dei loro sogni che in quella faccia potevano per un istante essere percepiti come veri. Era il suo potere. Peccato Chris Safire fosse capriccioso, irritante, dispettoso, egoista e dotato di una vena sadica che metteva un po’ paura. Ma tutto gli veniva perdonato, sempre.
E ora che era un divo del cinema muto, faceva parte dei suoi vezzi. Era normale possedere un ego vasto tanto quanto i manifesti giganti su Piccadilly con la tua faccia e il tuo nome fatto di lampadine. Col viso dipinto di bianco, il rossetto a marcarne la bocca sfrontata e il nero a sottolineare occhi altrimenti troppo chiari per impressionare la pellicola, migliaia di ragazze inglesi erano innamorate della star.
Gini mise due dita in bocca e richiamò la sua attenzione con un fischio da pastore delle Shetland.
Chris li individuò e andò verso di loro: “Sei vestita da Cricket.” Constatò. Poi parve ricordarsi di qualcosa, si girò appena: “Jericho” e fece un cenno col capo. Non padre, non ‘zio’. Aveva smesso di usare quegli epiteti infantili appena aveva raggiunto l’età della ragione e intuito parte della sua storia.
“Giriamo un film a Pinewood. Ci serve tutta la luce del giorno possibile e ho perso due ore buone per venire qui e non so quante sterline della produzione, spero non sia per mostrarmi quanto sei brava a maneggiare le palle, zucchina. In quanto a Jericho…” lo disse come se l’uomo non fosse neppure presente: “..l’ho già visto il mese scorso. Vedo che sta bene.”
Gini gli porse la sua bottiglia. Chris la prese e se la portò alle labbra.
“Non fare finta di niente, star. Sapevi che ti avrei chiamato qui prima ancora che lo facessi.”
Chris emise una specie di brontolio.
“Sapete perché siete qui. Ci siamo incontrati in sogno. Per ognuno era diverso, ma era lo stesso sogno perché eravamo insieme ed eravamo una cosa sola. Avete avuto paura, perché anche io ne ho avuta.” Gini guardò giù verso il campo da cricket, gli uomini in bianco correre e schiamazzare.
Tutti e tre pensarono al sogno, perché il sogno era vero. E tutti e tre avevano rivissuto in sogno la paura più grande della loro esistenza. Una cella di Bedlam. Chiamare la nonna invano, perché se n’è andata nel sonno e non serve scrollarla. Riporre una rivoltella monogrammata JM dentro una bara e poi vedere quella bara venire inchiodata. Paura.
“So che cosa provavate. E so che cosa avete visto quando avete guardato su, fuori, oltre la finestra di quella scena. Avete visto la fine del mondo. Non negatelo, perché quello che vediamo in tre è vero. E’ sempre stato così. Ci sarà la fine del mondo, molto presto.”
 
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